“Donne e Arte in Carcere”: un volume per «dare voce a chi vive una condizione in cui le parole si spezzano in gola»


 di Lorena Liberatore


 Donne e Arte in Carcere è un libro prodotto e curato dalla CGIL Bari  (Edizioni dal Sud). Una buona occasione per affrontare il tema delle condizioni detentive delle detenute, ma anche per parlare di rieducazione e di genitorialità. 


 ”Il buio”, “il rosso”, “sentimenti”, “il mare”, “racconti”, “davanti a un quadro di Van Gogh”, “le nostre ricette”, “gli affetti, la famiglia”, “se non fossi io… chi o cosa vorrei essere”, “sogni”, “Natale in carcere”, “libertà”. Sono i semplici spunti, argomenti e temi come piccole scintille per accendere la fantasia, dati alle donne del carcere Circondariale di Bari durante il laboratorio di scrittura creativa. 

 Il fine di questo lavoro si pone fin da subito quello di: «Dare voce a chi vive una condizione in cui le parole si spezzano in gola. Restituire attraverso la scrittura uno scampolo di libertà a chi la libertà l’ha lasciata oltre le sbarre». Il tutto per offrire al lettore «la possibilità di osservare dal di dentro, attraverso le emozioni delle detenute-scrittrici, una condizione di grande disagio e sofferenza». 

 Anna, Cinzia, Claudia, Cumira, Ekaterina, Filomena, Giovanna, Jessica, Lina, Lucia, Marcella, Maria Grazia, Mercedes, Natalia, Rosa, Sandra, Stanislava sono i nomi delle donne che hanno partecipato questo laboratorio. 

 Semplicità, innocenza (e, mi azzarderei a dire, quasi di un bambino), è ciò che traspare da questi testi che un po’ fanno pensare ad alcune parole di Daniele Giancane, che con alcuni poeti del gruppo La Vallisa anni fa tenne un simile laboratorio. Raccontò l’esperienza in Scrivere poesia, essere poeti, vale la pena riportarne qui un estratto: «[…] siamo sempre convinti che pure l’essere umano più in difficoltà (detenuto, appunto, o folle, o con scarsissimi strumenti culturali, o anziano) ha dentro di sé una variegata, complessa vita interiore che attende di essere scoperta, espressa, valorizzata. Portarla alla luce significa dare un grande sviluppo alla ricerca di sé, condurre la persona a intuire che il suo sé non è solo quello – sociale – del delinquente o del folle, ma anche quello del poeta, del candore, della profondità dell’anima. La poesia può fare questo. […] Un laboratorio di poesia con i detenuti non significa soltanto far esprimere le emozioni, ma anche esercitare l’intelligenza, il confronto, la pazienza. Vuol dire trasmettere l’idea che nulla si ottiene facilmente e per caso, ma che invece tutto si conquista, lentamente; e quando si conquista qual cosa, la felicità che ne viene è straordinaria, e questo vale anche se si tratta di una modesta poesia, magari dedicata a un aspetto infinitesimale della realtà […] Così cominciò il laboratorio, in una stanza disadorna ai cui muri si addossavano le guardie carcerarie al cui centro erano seduti, come scolaretti, una cinquantina di detenuti (l’esperimento era ripetuto tal quale nella sezione femminile), all’inizio indifferenti e ostili, poi pian piano presi da quello strano gioco, infine davvero partecipi e protagonisti. Scrissero – nel giro di qualche mese – testi bellissimi, colmi di un’acuta nostalgia della famiglia (di quella che fu o di quella che sarebbe potuta essere), che venivano letti e commentati, fatti girare in tutto il carcere, affissi ai muri. Nei loro testi, infatti, ritroviamo brandelli di vita, momenti e rammemoramenti familiari, l’età dell’infanzia, quando non si era caduti nel vortice terribile che aveva condotto in quel luogo; ci sintonizziamo sulle loro emozioni, così spesso delicate e tenerissime, legate a piccoli moti del cuore o a sorprese osservazioni della realtà quotidiana». 

 Ed episodi di vita quotidiana, presente ma soprattutto passata, e l’infanzia, la famiglia, sono descritti in Donne e arte in carcere. Quell’innocenza, quell’autenticità, svelate da tali laboratori, sono talvolta frutto di una personalità semplice, e che nonostante i vissuti e le difficoltà con un approccio altrettanto semplice, “umano”, si avvicina a qualcosa di nuovo, come la scrittura di una poesia o di un racconto. Altrove s’impongono come riflesso di un altro aspetto, meno piacevole alle coscienze e poetico ma duramente reale e tipico di chi vive lo stato di detenzione. Un aspetto nel quale il recupero e la rieducazione sono ottenuti (là dove possibili) attraverso l’obbedienza e la sottomissione, dove la routine e l’alternarsi di azioni uguali e calcolate spingono inevitabilmente verso una dimensione passiva e infantile. 

 Donne e arte in carcere è quindi un libro che aiuta a riflettere su realtà poco note, o spesso ignorate in quanto lontane dal raggio d’azione o dal modo di vivere di molti. Ci sono situazioni buie che non vanno ignorate, vale la pena conoscerle per comprenderle, talvolta cambiarle là dove possibile, situazioni che come in questo caso riguardano in particolare le donne. Situazioni spesso inquietanti perché, come scrive una delle donne di questo libro «Il buio fa paura: nel buio senti suoni e rumori; hai pensieri e ricordi!».


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