Anita Piscazzi: la poesia come dimensione onirica in cui fingersi “anche ciò che non si è”



 di Lorena Liberatore 



 Anita Piscazzi, pianista, poeta e dottore di ricerca, si occupa di studi etnomusicologici e didattico-musicali. Ha pubblicato diverse raccolte poetiche, è vincitrice del premio Isabella Morra 2017, collabora con le riviste poetico-letterarie «La Vallisa», «Incroci», «CittàdiVita» e «ClanDestino», ed è, infine, caporedattrice della rivista di poesia «Marsia. Variazioni poetiche». 
 Una visione orfica e raffinata quella della Piscazzi, che concepisce la scrittura poetica come una giusta dimensione onirica in cui fingersi anche ciò che non si è, dove porre e porsi domande che rimarranno sospese in quella dimensione nota solo ai sognatori, né mai avranno definitiva risposta. Pena, rovinare la purezza stessa della poesia. 

 Di seguito l’intervista rilasciatami. 


 La musica fa parte della tua vita esattamente come la poesia. Parlaci di questa tua passione. 
 Sono cresciuta con la musica e con essa mi sono formata prima ancora che la poesia prendesse piede. Ho iniziato ad amarla da piccola, avevo sei anni quando ho imparato a suonare il pianoforte e crescendo ho perfezionato lo studio di questo strumento in conservatorio fino a diplomarmi. Contemporaneamente è nato l’amore per la Letteratura, così mi sono iscritta alla facoltà di Lettere con indirizzo storico-artistico discutendo la tesi di Laurea in Storia della Musica, in seguito ho continuato all’Università con la ricerca approfondendo nel mio Dottorato proprio gli studi musicali, in particolare su “El Sistema” di Josè Antonio Abreu, ex ministro della cultura in Venezuela che ha fatto tanto per riscattare i bambini poveri ed emarginati delle periferie di Caracas togliendoli dalla strada e facendoli suonare nelle orchestre giovanili. Oggi l’approccio col pianoforte che ho in mente è totalmente diverso da quello di impostazione classica, cerco di adattarlo in una forma più libera di espressione e di improvvisazione intrecciandolo con la poesia. I progetti musicali e poetici che ho in mente sono tanti e spero di portarli a termine anche con la collaborazione di musicisti professionisti e soprattutto che abbiano la mia stessa sensibilità di sentire la vita. 

 A che tipo di lettore è dedicato il tuo ultimo libro, “Alba
che non so”? E perché hai scelto questo titolo? 
 Inge Feltrinelli, grande figura dell’editoria italiana scomparsa in questi giorni, diceva che i libri hanno un destino misterioso che non ci è dato sapere. Quindi credo che la lettura di un qualsiasi genere di libro possa essere aperto a diverse fasce di età e che l’essenziale sia il farsi attraversare da quello che ci vogliono raccontare e trasmettere o da quello che vogliamo leggerci dentro. Il senso di un libro sta nell’aprirci alla vita attraverso interrogativi e domande che debbano essere lasciate sospese senza risposte ben definite che sono pericolose perché atrofizzano il pensiero e la capacità di creare. La scelta del titolo è stata piuttosto ardua, non è semplice scegliere il titolo di un libro perché deve catturare l’interesse di chi lo annusa e ci vuole entrare. Ho scelto “Alba che non so” perché l’alba è il momento primordiale del giorno dove tutto è possibile e non sappiamo come andrà a finire la giornata, proprio come nella vita e nelle relazioni sentimentali: tutto è possibile ma non ci è dato sapere nulla! 

 Parlaci della tua esperienza musicale e umana con i bambini africani. Quanto ti ha arricchita dal punto di vista umano? 
 L’esperienza in Africa risale ad agosto 2017 quando una mia cara amica, attrice di teatro mi ha proposto di occuparmi della parte musicale e poetica di un progetto teatrale dal titolo “MissKilimangiaro” sponsorizzato da “AvisForChildrens” di Casalnuovo vicino Napoli, per i bambini di Malindi in Kenya. La tematica era alquanto forte dovevamo preparare uno spettacolo basato sulla storia vera di una ragazza kenyota, Nice sfuggita alla terribile pratica dell’infibulazione che purtroppo in alcune zone dell’Africa ancora oggi si pratica, coinvolgendo un gruppo di ragazzi di età compresa tra gli otto e i quattordici anni. Abbiamo lavorato sodo con loro, andavamo tutti i giorni nella scuola del loro villaggio poverissimo a Muyeye nella periferia di Malindi a ricostruire la storia con loro, attraverso la sensibilizzazione della tematica e il laboratorio sono emerse narrazioni interessanti da parte dei ragazzi e siamo riusciti a formare una piccola orchestra, la “JambOrchestra” con strumenti poverissimi, autocostruiti e suonati da loro, non è stato difficile insegnare il ritmo, il tempo perché ce l’hanno già è innato, anzi sono riusciti ad emozionarmi e mi hanno dato tanto, insomma ho imparato io da loro. È stata una gioia condividere tutto aiutandoli anche nei momenti meno felici. È stata fondamentale come esperienza perché mi ha arricchito dal punto di vista umano, mi ha cambiato il senso di vedere la vita e senz’altro mi ha aiutato a non lamentarmi più per cose futili. 

 Stai lavorando a un nuovo libro? 
 Non ancora. Ho mille progetti in testa che non hanno ancora una direzione. Dietro le mie raccolte c’è sempre un lavoro di anni, di ricerca della parola, del suono e di un ritmo, quando decido di pubblicarle è come se avessi la sensazione di essermi svuotata, così ho bisogno di rinascere e concentrarmi su ciò che mi interessa e mi incuriosisce per far nascere qualcosa di forte e di nuovo.



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