I testi poetici di Rino Bizzarro



 di Lorena Liberatore 


 Oggi non voglio parlare di un solo libro, voglio parlare delle
Foto da Google
liriche, diverse liriche che negli anni hanno visto svariate pubblicazioni, appartenenti a un autore pugliese. E svariati sono anche i meriti e le imprese artistiche di Rino Bizzarro: regista, attore di teatro, autore, poeta, artista eclettico che, con la sua Compagnia dal significativo nome di Puglia Teatro e con la sua coraggiosa scelta di vita, quella di restare nella propria terra natale (la Puglia e in particolare Bari), ha contribuito alla crescita del teatro pugliese (scelta opposta rispetto quella fatta dai Bene, Barba e Micol ed altri ancora). Alla Compagnia Puglia Teatro si deve, tra i tanti meriti, la prima riproposta teatrale di Don Pancrazio Cucuzziello, la Maschera pugliese proveniente dalla fertile Commedia dell’Arte. Su Cucuzziello Rino Bizzarro ha scritto È di scena Don Pancrazio Cucuzziello (1983), e con Daniele Giancane un testo a quattro mani, Don Pancrazio Cucuzziello: per un teatro popolare nella scuola dell’obbligo (1979). 

 Molti sono i suoi testi teatrali rappresentati in Puglia e all’estero, alcuni suoi lavori sono stati tradotti in diverse lingue, per svariati anni ha lavorato per la Rai e a circa una cinquantina di sceneggiati radiofonici e programmi culturali, numerose e note sono le interpretazioni attoriali (da Pinocchio nello sceneggiato radiofonico prodotto dalla Rai, a Pulcinella nella commedia di Luigi Chiarelli, passando per il Signore dal pastrano verde in Musica di foglie morte di Rosso di San Secondo, e molto altro), ha pubblicato svariati libri di poesia, collabora a numerosi giornali e riviste, ed è comparso in molte antologie e saggi critici fra gli autori della Quinta Generazione. 

 La sua produzione poetica è rigorosamente in verso libero. In questo vasto territorio letterario, spicca all’attenzione del lettore come nelle poesie datate anni ’80 sia più forte il desiderio di un contatto con l’aldilà, con le anime dei cari perduti, spesso nulla più che “presenze” erranti in una dimensione intermedia tra il nostro e un altro mondo. Ma la comunicazione è piena di interferenze: in una sorta di torneo truccato il bandolo della matassa, il filo di Arianna sfugge alla ricerca moltiplicando il labirinto e confondendo, depistando e riducendo tutto a porte «davanti a cui ogni volta bisogna / fermarsi, per poi ricominciare / in un gioco di specchi senza uscita». 

 Un perenne ricominciare una strada percorsa, tale è l’immagine prepotente che ricorre in Battuta di Soggetto, raccolta poetica dalla pregnante impronta teatrale, dove la fa da padrone l’intimo soliloquio ma anche un voler ammiccare al lettore, come a chiedergli di proseguire la battuta, il proprio intervento attoriale lasciato in sospeso in partenza, e prima ancora che tutto accada. O forse l’interlocutore tanto atteso ha corpo di pura essenza, poiché forte è il pensiero, la speranza-consapevolezza che «curate / il mio sonno di sveglio / e che dove il piede cade in fallo / ponete voi, benevoli, il sostegno» (Presenze, da Battuta di Soggetto, Forum / Quinta Generazione, 1988). 

 Disperato, e prolungato nel tempo come una silente tortura, è quel desiderio di rivedere i propri cari, le persone che in vita si è amato e che in qualche modo si continua ad amare. Ricorrenti sono le figure della madre e del padre, in particolare dell’adorata madre (a lungo accudita e protetta, quasi a dispetto della malattia e delle difficoltà), forte il desiderio di proseguire un rapporto spezzato, di ripristinare la continuità di qualcosa che un tempo aveva armonia, unicità e necessità d’esistere. L’autore sembra così un esploratore alla ricerca di tracce perdute o, persino, una sorta di investigatore; tali persone ancora esistenti in qualche luogo sfuggente, seppur a tratti “presente”, sono disperatamente invocate e cercate, appunto con la lucidità di un investigatore, e la lungimiranza di un visionario. È un gioco di enigmatiche luci quelle dell’autore, dove le presenze continue nei suoi testi sono riflesso e metafora d’una ricerca di verità senza uscita, di kafkiana memoria.

 L’autore e le sue anime perdute sembrano muoversi in un’abitazione metafisica che ha dell’infernale perché si ritrovano ad essere puntualmente invisibili all’altro se non per alcuni istanti. E la stessa metafora la si può usare anche per i rapporti umani tra i cosiddetti vivi, i quali spesso nei versi di Bizzarro sembrano muoversi e percorrere lo stesso luogo ma in totale solitudine, senza un vero contatto con l’altro, invisibili con l’invisibile. È proprio questa mancanza, questa fragilità dei rapporti umani, sempre esistita e da sempre sofferta, a giocare un grande ruolo. Una fragilità ancor più acuita nella società moderna, massificata e introiettata nel proprio Io, che rendendo l’essere umano macchina e dedito soprattutto, o unicamente, alla sopravvivenza lo rende tanto più distante dai suoi simili e apparentemente “diverso”. 

 Dolorosa è l’incapacità di poter conoscere e comprendere il proprio prossimo fino in fondo: neanche l’amore riesce a ottenere vera vicinanza, forse perché la materia, il corpo, in qualche modo isola dentro un proprio percorso. Scrisse Baudelaire (non a caso caro a Bizzarro) ne Le Spleen de Paris: «Tant il est difficile de s’entendre, mon cher ange, et tant la pensée est incommunicable, même entre gens qui s’aiment» («È talmente difficile capirsi, caro il mio angelo, talmente il pensiero è incomunicabile, persino tra chi si vuol bene»). 

 Una sorta di telegrafo magico è quello che servirebbe, che nella perfettibilità di un calcolo numerico compia un miracolo della comunicazione spazio-temporale, un contatto con il mondo dei morti, che non viene percepito come una tetra Necropoli, bensì perfino più reale del nostro mondo («[…] di certo sei reale assai più tu / di quello che ci chiude e che ci stringe», Difetto sensoriale, da Io sono un outsider, La Vallisa, 1987). Più reale, quindi, e perfino più intriso di conoscenza, tanto che l’infinita sapienza di chi un tempo apparteneva alla nostra dimensione «[…] può / perdonare la grande ignoranza / testarda di chi parla delle tenebre» (Buio, da Post scriptum, La Vallisa, 1984). 

 Ma come tutti gli artisti e poeti che scontano in vita la croce-delizia o premio-condanna della loro sensibilità, il passare degli anni e il lento logoramento cui la vita stessa sottopone portano Bizzarro ad approdare, nei testi più recenti, ad un palese pessimismo, e proprio in quell’aspetto di sé e della sua interiorità che l’ha maggiormente caratterizzato; ecco che ogni possibilità di un contatto sembra del tutto fallita: «Chi se ne andò per tempo / giace in fondo al crepaccio / o su una stella remota; / è impossibile tendere la mano, / cercare un contatto / dal di qua» (Prove di assenza, Levante editori, 2002). Improvvisamente l’altra dimensione non è immaginata più come un luogo di concreta luce ma appare come una stanza nella quale tenere gli occhi aperti… al buio! Ma questo sembrerebbe necessario per “vedere” ciò che altrove la luce nasconde. 

 Brutale, disincantata e cinica si mostra la nuova visione della cose (benché il bambino che è in lui, suo malgrado, altrove sembrerebbe giunto pressoché intatto al vecchio), resa tanto più cruda nelle poesie in vernacolo barese e dalle sue sonorità: «Jè come n’ualde munne / ca’ se jabbre; / non s’ave avé pavure: e de ce’ cose?… / tande… / ddà ama scì / pe tanda tjmbe; / e allore jè megghje; / ad abbeduarse da mò / a tenè l’ecchie apirte / all’oscure…».

 In un’epoca in cui la poesia è per pochi “eletti”, appassionati e solitari amanti del genere che la fruiscono in rispettoso silenzio, in qualche modo antica e carica di energia è in Bizzarro la percezione della poesia stessa e del suo ruolo: «[…] La poesia deve incalzare / con gli anni / e farsi più presente, / prepotente. / Senza discrezione, / impetuosa, assoluta, / ti deve ghermire, / deve farti strumento, / penna, lapis, inchiostro; / non è un tiro di dadi / nè un’assenza improvvisa: / è panica coscienza, / lampeggiante, purissimo pensiero» (Pensiero, da Battuta di Soggetto). La poesia è rifugio, riparo nel dolore che la vita infligge e legittima difesa disarmata che permette di passare indenne fra le miserie e il fango. Il prezzo questo della Libertà

 Nonostante tutto, l’autore non abbandona mai la speranza che si possa «vincere la solitudine, la miseria, l’assenza, con l’amore» e attraverso la poesia. Magari proprio quella della sua terra natale, sospirata e mai abbastanza valorizzata. In questo amore per la propria terra e in quel suo voler agire dal di dentro, con una forma di attivismo che risiede nella stessa letteratura, ovvero nel potere della scrittura, Rino Bizzarro è vicino al pensiero di intellettuali come Tommaso Fiore. 

 Ed è in nome di questi ideali che, stanco e speranzoso, dice: «Se questi benedetti / poeti, artisti, / intellettuali pugliesi / […] capissero alla fine / […] che non serve a nessuno / spender tutta la vita / sbranandosi a vicenda / come cani rissosi e rabbiosi / su un osso inesistente, / carezzando illusioni irresponsabili / di monopolio e di esclusività / […] a danno del fratello, dell’amico, / la cultura di Puglia, sospirata!, / non sarebbe così da ricercare / col lanternino nel gran buio intorno» (Botta e risposta in rima: la poesia, la Vallisa, le storie del sud, testo di Rino Bizzarro e Daniele Giancane, da Frammenti di poesia post-moderna, La Vallisa, 1983). 

 Frequente è l’immagine dei sogni rubati, magari vuotati da una cassaforte. Allora tanto più forte e sentito è l’impegno politico, e gli ideali di giustizia, pace e fratellanza, ma anche lo spirito rivoluzionario di chi ha vissuto il ‘68 e dopo anni di “lotta” guarda spaurito, intimamente dilaniato, l’epoca contemporanea. 

 Il punto di vista dell’autore è quello di un sano idealista che come altri, intellettualmente cresciuti tra gli anni ‘60 e ‘70 (si pensi per esempio a Tommaso Anzoino), ha vissuto nella speranza di un futuro migliore, grazie alla consapevolezza, all’intelletto e alla lotta politica; ed è giunto nell’epoca odierna che sembrerebbe degna di un libro di fantascienza per quanto incredibile, quell’epoca segnata dallo strapotere dell’industria culturale e dei mass media, dai reality, ma anche dalle migrazioni di massa, dall’Isis e, oramai, da una conclamata, terribile e tanto più subdola terza guerra mondiale! Ai giorni odierni profetiche appaiono queste parole di Bizzarro: «[…] quando tutta l’esistenza è giocata nell’affare quotidiano, fra menzogna, ipocrisia, tradimento, miseria mentale, meschinità di frustrati e gravi colpe del potere politico, nell’avallare l’operato anche truffaldino dei suoi manutengoli, responsabili spesso dello stravolgimento di ogni criterio di valore e di merito; in tutto questo contesto l’unica condizione possibile per il poeta è quella dell’outsider» (prefazione a Io sono un outsider).



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