Le liriche di Renato Greco. Tra storia e introspezione



 di Lorena Liberatore 



 Oggi voglio parlarvi di Renato Greco, poeta campano di



Ariano Irpino che vive a Modugno, in provincia di Bari; vissuto a lungo a Milano, Napoli e Firenze, ex quadro di marketing nell’industria privata, laureato in legge ma da sempre fedele alla poesia e per la quale si dedica anche alla critica letteraria. 


 I testi di Greco sono legati alla tradizione classica e medievale, ma soprattutto a quella novecentesca, fin nella sua espressione più sperimentale. Infatti, nella sua produzione non mancano liriche in versificazione libera nello spazio tipografico della pagina, ad alterarne totalmente gli ordini, come nelle poesie Ragazza o Poesia a Narda (pubblicate nel volume Biografia d’amore nel 2005). Ingredienti base, questi, per una scrittura fluida e calibrata. 

 Ci narra l’interiorità umana, le sue idiosincrasie e le contraddizioni che vedono l’uguaglianza riflessa nella diversità come in un gioco di specchi. Perché gli esseri umani, quelli di oggi come di ieri e probabilmente come quelli di domani, sono simili e in questo fratelli seppur nella loro apparente diversità, persino distanza (sia essa fisica o metafisica). 

 Buona parte dei testi di Renato Greco sono pensati e dedicati proprio all’umanità, al comportamento sociale, come anche all’analisi dell’ingiustizia. 

 Rientra in questa (auto)analisi il volume Dintorni di Nessuno (pubblicato per i tipi della casa editrice L’artedeiversi nel 2011), in cui protagonista delle liriche è il famoso Nessuno dell’Odissea. In questo famoso eroe ritroviamo molto delle inquietudini, del bisogno di conoscenza e di svelamento del mistero, come del desiderio di governare e determinare il proprio destino, insiti nell’uomo. 

 Talvolta piccole porzioni di realtà, gesti quotidiani, ricordi, vagheggiamenti, danno voce a spunti per riflessioni di più ampia portata. Il tutto accompagnato da uno stile spesso semplice, diretto, scevro di classicismi. 

 Nel titolo della poesia 6 haiku (pubblicata nei volumi Civile sdegno e consumato cuore del 1992 e Autoantologia del 2002), compare immediato e chiaro l’utilizzo dell’omonimo componimento poetico giapponese del XVII secolo: genere letterario composto da tre versi e usato per descrivere la natura e i comportamenti umani da essa ispirati. Infatti, la riflessione è generata dalle suggestioni sulla natura nelle sue diverse stagioni: «Giorni di addio / novembre lacrimoso / sta trascinando. // Solo il tuo mare / dimentica i gabbiani / dell’amor mio. // È giunta l’ora / della malinconia / per chi rimane». 

 Legato al genere haiku è anche la poesia Tanka (in Biografia d’amore): il riferimento diretto è ad un altro componimento poetico d’origine giapponese, in questo caso formato da trentuno sillabe (a partire dal XVII secolo i primi tre versi del tanka furono usati come una poesia a sé, dando così vita all’haiku). 

 Rientrano nel filone di tradizione classica, mescolato con la storia arcaica, le liriche 2070 (Notte d’una fanciulla nelle steppe degli Amurru) e 1560 (Un giovane guerriero più non scioglie). Poesie dal doppio titolo e dal forte contesto storico e sociale (pubblicate ne La lunga via, da ieri fino a doveEpopea Umana del 1996). 

 Nella prima il tema, esplicitato anche da alcune note d’autore, è la malinconia notturna di una donna innamorata il cui uomo è partito per la guerra. Già nel titolo si citano le steppe degli Amurru, ovverosia il regno di Amurru, nato probabilmente sul finire della tarda Età del bronzo e la cui esistenza derivò dall’unione di popolazioni semitiche occidentali, gli Amorrei o Amorriti, popolazione di nomadi che migrarono dalle steppe e dai deserti occidentali, appunto, verso la Mesopotamia. 

 L’Incipit dalla romantica atmosfera di Notte d’una fanciulla nelle steppe degli Amurru vede una calma e aurea notte, una tenda aperta dentro la quale si scorge un discreto lume, e come sottofondo il «frusciare della steppa». Il sonno tormentato della donna è accompagnato dal rumore della strada, della vita che sempre avanza: la risata di un bambino, il respiro pesante di un anziano, la tosse di una guardia e il ruggito delle belve. I primi elementi citati possono apparire non reali, ovvero metafore del tempo, del passato, presente e futuro, o delle opportunità che il vivere può offrire (come nel dipinto Le tre età della donna di Klimt). 

 In 1560 (Un giovane guerriero più non scioglie) torna il tema della guerra e il testo appare al lettore come un perfetto proseguo della lirica appena descritta: l’allontanamento degli uomini è rappresentato cinematograficamente, come un evento in fieri, e attraverso il susseguirsi continuo delle metafore, come l’agile puledro che si slancia per rincorrere il leone nel deserto, il giovane guerriero sul carro («ricoperto di ferro») che segue il suo re nelle pianure, i lamenti delle donne che si levano dalle case per raggiungere gli uomini in viaggio. 

 Al termine di queste metafore si scopre una narrazione in prima persona, a parlare è una donna, ancora una volta innamorata e desiderosa di riabbracciare il proprio uomo. Descrive le proprie azioni: la salita sul monte, presso il santuario, per invocare la dea Eneanna e chiederle il ritorno dell’innamorato («Sono salita all’alto santuario / ed ho chiamato Eneanna a mia difesa. / Ritorni a me colui che m’ha lasciata, / ne ascolti il passo correre nel vento»). Conclude la lirica una promessa di castità offerta alla dea («Nessuno scioglie più la mia cintura», in riferimento alle usanze religiose del luogo, secondo le quali la sacerdotessa doveva indossare una cintura di corda come simbolo di verginità). 

 Nell’immaginario dell’autore la donna protagonista di questa poesia vive ad Uruk, antica città dei Sumeri e successivamente dei Babilonesi nella Mesopotamia meridionale, oggi situata venti chilometri ad est dall’Eufrate. Viene, infine, invocata la dea Eneanna, ovverosia Inanna, dea sumera di fecondità, bellezza e amore (in quanto relazione puramente erotica o estranea al contesto coniugale). 

 Nei testi d’argomento erotico o amoroso predominano atmosfere dannunziane, citazioni e ammiccamenti a Cielo d’Alcamo, Pietro Aretino e ai generi letterari loro contemporanei. Talvolta tali citazioni si fermano al semplice titolo, basti pensare per esempio alla poesia Contrasto in cui, a differenza del famoso componimento poetico del secolo XIII, i versi si mostrano privi del dialogo come dello spirito scherzoso e popolare; qui compare solo l’elemento amoroso ma serio e malinconico, calato in un sentimento d’arresa di fronte l’allontanarsi della persona cara, «[…] stanca di tanto andare, ti soffermi / e lasci che mi perda all’orizzonte» (Biografia d’amore): due strade un tempo parallele ora si separano. 

 Tema, quest’ultimo, citato anche in altri versi, come i seguenti senza titolo: «Più non c’incontreremo, forse, / e saremo come due estranei / che andando insieme per la stessa strada / hanno dovuto separarsi al bivio». Ma la speranza di un futuro in cui essere ancora vicini è una, seppur piccola, ragione di speranza: «Ma è questo ‘forse’ che mi dona / la volontà di combattere / contro le ombre di un passato senza amore / che talvolta m’assale col ricordo / e non mi fa dormire la notte» (in La chiave cadde in mare). Sono parole piene di nostalgia che si accordano con le immagini della notte solitaria e dell’interminabile giorno in solitudine, presenti nella poesia Dedica: «M’impaura la notte solitaria, / il giorno è interminabile / senza te» (La chiave cadde in mare). 

 In Guglielmo il trovatore il riferimento alla poesia lirica occitana o letteratura provenzale, in particolare al trobar leu come alla tenzone, e a Guglielmo IX d’Aquitania filtrati attraverso la Scuola Siciliana e al sirventese (nella tradizione siculo-toscana più conosciuto come genere legato alla lotta politica) sono palesi. In piena atmosfera feudale e cortese il poeta canta la sua arte: «Da castello a castello pellegrino / cantor d’amore e musico divino // fortuna vo’ cercando nel paese / dove è nato e si canta amor cortese. // Accendo il cuore delle belle dame / pulzelle e maritate, che hanno fame // di dolcezza e parole delicate, / nelle nobili corti relegate» (in Rose dall’ultimo paese del 2004). Talvolta l’autore si autodefinisce giullare, sottolineando ancora una volta il legame con la tradizione («Ti donerò / i miei canti da giullare», Come il giardino dormi, in Biografia d’amore).



 Pubblicato su http://lobiettivonline.it/


Comments