Intervista a Claudio Crapis


di Lorena Liberatore


 Claudio e Giandomenico  Crapis sono autori di “Umberto Eco e il PCI. Arte, cultura di massa e strutturalismo in un saggio dimenticato del 1963”. L’uno docente e dirigente scolastico, l’altro medico, sono, «infaticabili esploratori del secolo passato con le sue coerenze e contraddizioni, recuperano un vecchio saggio dell’intellettuale piemontese, noto in tutto il mondo e di recente scomparso, ripercorrendone l’iter di riflessioni alla ricerca di parallelismi tra evoluzioni della società e fenomenologia artistica e culturale. 
 Mezzo secolo fa, questo dibattito tra gli intellettuali italiani era molto vivo e l’eco ne varcava agilmente le frontiere: se l’egemonia culturale della sinistra in Italia era cosa discussa, l’egemonia della cultura italiana nel mondo era indiscussa. 
 I due autori ci riportano così alla modernità di quel dibattito “rimasto in sospeso” in quanto tuttora attuale, valido, interessante soprattutto nel metodo di Umberto Eco».  

 Di seguito un'intervista a Claudio Crapis.


 Com'è andata la presentazione del suo libro, sabato scorso? 
 Certo non sta a me esprimere valutazioni di questo tipo, ma personalmente sono molto soddisfatto; ho visto un uditorio attento e che ha posto diverse domande. 



 "Umberto Eco e il PCI. Arte, cultura di massa e strutturalismo in un saggio dimenticato del 1963", com'è nato questo libro? 
 E' stato mio fratello Giandomenico - in occasione della "Lettura no stop del Nome della rosa" organizzata nel Maggio 2016 nella Libreria Tavella di Lamezia Terme dal compianto Augusto Porchia, cui va il mio ricordo commosso e riconoscente - a propormi di ripubblicare e commentare questo articolo "dimenticato" di Eco. Sulle prime, confesso, ero alquanto perplesso, soprattutto perché non volevo dar l'impressione di cavalcare l'onda emotiva suscitata dalla morte, allora recente, di Eco. Poi ho letto l'articolo e ho cambiato idea. 

 Lei è docente e dirigente scolastico, suo fratello invece medico. Due ambiti apparentemente inconciliabili! Cosa vi ha spinti a collaborare a questo volume? 
 Mio fratello, benché medico, da sempre è appassionato e studioso della televisione italiana e dei rapporti fra potere e mezzi di comunicazione di massa. Su questi temi ha pubblicato diversi libri. Io mi sono laureato in Semiotica a Bologna con il Prof. Eco e dopo gli anni del dottorato, mi sono dedicato all'insegnamento, mantenendo, per quanto mi è stato possibile, la passione per gli studi semiotici e per gli scritti di Umberto Eco. Quindi il lungo articolo del 1963 si presentava evidentemente come un fecondo terreno di incontro dei nostri interessi. 

 A due anni dalla morte di Umberto Eco, cosa ci resta di lui? Ma soprattutto, cosa ci resta di questo suo saggio dimenticato del 1963? E quanto la sua puntuale analisi della società di massa e dei suoi miti è ancora attuale, oggi e in questo delicato periodo politico? 
 Eco ha lasciato un'eredità straordinariamente ricca di spunti di ricerca in ambiti diversi, di stimoli e di studi con la quale ogni studioso può e deve fare i conti, dalla semiotica alla filosofia del linguaggio, dall'estetica alla teoria delle comunicazioni di massa, dalla storia delle idee alla teoria della letteratura. Riproporre oggi il saggio del 1963 ha senso non per interesse documentario, ma perché ci mostra - benché Eco sia ai suoi esordi (aveva poco più di trenta anni) - quanto sia necessario guardare alla cultura nella complessità delle sue dinamiche e collegare le analisi al contesto storico. Quanto sia importante studiare senza snobismi e anzi con strumenti raffinati culturalmente gli specifici linguaggi dei mezzi di comunicazione di massa, cogliendone la dimensione interdisciplinare (dall'estetica alla sociologia, all' antropologia ecc.), capire come vengano fruiti da pubblici diversi e riuscire a collegarli sia con altri fenomeni comunicativi, dello stesso genere o di altra natura, sia con il contesto socio-economico. 
 Penso che sia attualissima quella lezione di impegno critico e di profondità, necessaria ancor di più oggi con i profondi mutamenti introdotti dalla Rete. Di fronte alla cultura di massa in tutte le sue forme il suo atteggiamento coerente non è stato né di pessimismo apocalittico né di ottimismo integrato, ma di attivo impegno critico. 

 Com'era 'Umberto Eco - docente'? L'immaginario di chi non l'ha conosciuto tende ad oscillare tra due estremi: era un uomo severo e distante o una persona umana (nel senso più nobile del termine) e dal modo di fare 'paterno'? 
 La materia insegnata da Eco all'Università, Semiotica, incuteva un certo timore, perché richiedeva molto impegno e presupponeva un bel po' di letture e conoscenze, infatti di solito la si affrontava al terzo o al quarto anno (secondo il vecchio ordinamento). Per laurearsi con lui, poi, bisognava conoscere almeno due lingue. Ma le sue lezioni erano coinvolgenti e divertenti anche; era estremamente disponibile con gli studenti, amava molto fare lezione (non si assentava mai). Con i suoi laureandi e/o dottorandi era abitudine andare a mangiare insieme almeno una volta a settimana. E sicuramente potrei confermare che "paterno" era il suo modo di fare. 

 Questa domanda la rivolgo semplicemente al Claudio Crapis lettore… di narrativa! L'ultimo testo di narrativa di Umberto Eco è del 2015: il discusso "Numero Zero", edito dalla Bompiani. Un romanzo che divise nettamente il pubblico dei lettori e fece discutere molto, in particolare su quei social network oggi tanto di moda, ma anche tanto dileggiati dallo stesso Eco. Cosa pensa di "Numero Zero"? 
 "Numero zero", settimo e ultimo romanzo di Umberto Eco, sicuramente spiazza il lettore dei romanzi precedenti: è breve, semplice quanto a numero di personaggi e compatto quanto al tempo e al luogo. Ma la piacevolezza del libro consiste nella capacità di rappresentare le dinamiche attraverso le quali la conoscenza viene "fatta a pezzi" dall'informazione, anzi addirittura ostacolata dall'informazione.



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