Enrico Bagnato. Tra quotidianità e storia
di Lorena Liberatore
Tra analisi del più semplice quotidiano e slancio spirituale, nel desiderio di conoscenza del divino; tra pacata riflessione e narrazione di fatti storici, al fine di creare un’epopea. Sono i testi di Enrico Bagnato, scrittore d’origine leccese, laureato in giurisprudenza, poeta, drammaturgo, autore di racconti e critico letterario, iscritto alla S.I.A.E., alla S.I.A.D. (Società Italiana Autori Drammatici) e membro del Consiglio Direttivo del Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea (CENDIC).
Ha vinto svariati premi di poesia, su invito dell’Associazione degli Scrittori Serbi ha partecipato al 39° e al 44° Belgrade International Meeting Of Writers; un’antologia della sua opera poetica è stata pubblicata in ex-Jugoslavia dalla Casa Editrice Gradina, inoltre collabora con varie riviste letterarie, e i suoi testi sono compaiono in antologie, periodici e quotidiani, sia in Italia che all’estero.
Probabilmente la vena poetica più profonda, la più disperata sensibilità, di Bagnato si avverte nel suo interrogarsi sull’esistenza di un Dio, nella ricerca tensiva di una metafisica in cui le azioni migliori dell’essere umano, i suoi valori, i suoi sentimenti possano continuare a vivere, il tutto in un intimo connubio con quei propri simili che in vita si è amato, forse senza dimostrarlo mai abbastanza.
Proprio alla luce di questa affascinante caratteristica, voglio oggi parlare della sua poetica, ancora una volta senza soffermarmi su un solo testo ma attraversandone rapidamente alcuni, un po’ come farebbe un passero che salta di ramo in ramo, a volte soffermandosi di più su uno, meno su altri.
Il desiderio di un Dio giusto che punisca gli animi crudeli è fortemente manifestato. Infatti, il pensiero dell’autore non può concepire perdono per la violenza politica, il giudizio nei confronti dei dittatori, per esempio, dovrà essere severo perché «non posso non credere che esista / nell’aldilà un inferno» (Se penso a Hitler, in Il vento delle parole, Tabula Fati edizione, 2016). Così nella lirica Materia oscura afferma «Non è vacuo lo spazio» a sottolineare la speranza di non esser soli, o sperduti nell’universo; e altrove, nella viva solidarietà nei confronti di una persona vicina e in difficoltà, quel desiderio di annullare la solitudine trova realizzazione in quei «tanti, che lottano al tuo fianco: / familiari, colleghi di lavoro, / vicini di casa» (I mali del mondo, in Il vento delle parole).
L’analisi del proprio vissuto, il bilancio della propria esistenza, avviene vagando per strade conosciute, in un viaggio che consiste nel ripercorrere i luoghi del passato. Lì, in un dialogo con un se stesso più giovane, la consapevolezza di sé si ottiene nel tornare sui propri passi, così in Le vie della città: «Percorro le vie della città / con l’animo di fanciullo di una volta […] vi scorgo, / ombra in un labirinto, qualcosa di me di un tempo che in esse / ancora vaga». In questa visione bergsoniana la realtà è una sorta di antica abitazione piena di fantasmi: ogni cosa, ogni oggetto è una porzione del proprio io persa in una porzione di storia. Proprio gli oggetti ne testimoniano il passaggio, le strade, le pietre, i palazzi, raccontano una vita, diversa e in qualche modo comune (Il vento delle parole).
In una visione che ha del kantiano viene affermato che «Ciò che vedi / non è reale, ma idee o spirito, / che, al mondo umano, / Dio ti fa percepire come reale, / o illusione di sostanza». Ennesima ed esplicita citazione filosofica è quella che porta ad affermare «è superato il Velo di Maya», inteso in questo caso come incapacità di scoprire la nostra diretta relazione con Dio. La consapevolezza umana e la singola responsabilità di un mondo migliore si basano sul più semplice concetto di armonia, quello che determina l’esistenza di particelle materiali o immateriali formanti la materia ed espressione del Divino Pensiero (Esse est Percipi, in Il vento delle parole).
Plinio il Vecchio parlava di armonie delle sfere, antico concetto filosofico che considerava l’universo come un grande sistema di proporzioni numeriche e proprio a tali concezioni sembra aggrapparsi l’autore; benché a tradire la ferma e disperata speranza subentri anche una sorta di rassegnato pessimismo il quale afferma affranto «Siamo come fiori / che profumano / e in breve appassiscono / dinanzi agli altari degli dei. / A che parlare di eternità?» (Siamo come fiori, in Il vento delle parole): il rammarico della caducità della vita, l’inumana precarietà del vivere, porta a una inevitabile accusa verso quel Dio tanto contemplato.
Nella produzione poetica non manca l’uso di generi stranieri come l’haiku, il componimento poetico giapponese del XVII secolo, per esempio nella lirica Hai-ku dell’autunno. Il testo Elegie per Lucilla (Arsamandi, 2011) invece già nel titolo, e nelle iniziali citazioni di Catullo, Properzio e Tibullo (i quali fungono da incipit alla comica storia d’amore narrata), fa pensare alle elegie di Montale dedicate ad Annetta (o Arletta) ma soprattutto alle famose Rime Petrose di Dante, così ribattezzate da Vittorio Imbriani a metà ‘800 poiché dedicate a donna petra, donna fredda e distante che disdegna le offerte amorose del poeta.
Ma l’ambito più corposo e interessante dell’autore è l’epopea, quell’epopea che sa di conoscenza popolare, di storia e di storie tramandate oralmente, ma anche di tanto patriottismo e senso d’appartenenza, a un Paese, ma anche a una Nazione, a un intero Popolo.
Ne è un esempio L’avventura di San Nicola (Gruppo poeti La Vallisa, 2015) che narra la vita del famoso santo giunto da Myra e al quale i baresi sono molto devoti, o L’assedio di Vienna (Poeti La Vallisa, 2015) incentrato sugli avvenimenti dell’assedio fatto a Vienna dall’armata ottomana nel 1683 ma anche ispirato a personaggi biblici come Giuditta, l’eroina del popolo ebraico.
In Rimbaud/Gioacchino Murat (La Vallisa, 2008) lo stesso volume vede unite e contrapposte due figure importanti della letteratura e della storia. Rimbaud è un testo teatrale il quale, naturalmente, predilige la forma dialogica seppur non tralasciando l’elemento più poetico e riflessivo, Murat è un lungo monologo ricco di endecasillabi arcaicizzanti; ma in entrambi, come sarà in Poema Garibaldi, le vicende sono osservate attraverso il finale della storia, in quel momento in cui la morte dona maggior lucidità (sorta di chiaroveggenza) ed è possibile ricostruire la propria vita comprendendone ogni importante dettaglio e riscoprendone il senso. Un flashback perenne quindi, o una visone cinematografica degli eventi.
In quest’ottica Garibaldi, Arthur e Gioacchino ritardando e contemporaneamente attendendo un finale scontato, la loro morte appunto, giudicano se stessi e il loro tempo. Ma se quella di Garibaldi giunge solo dopo tante vittorie e imprese di successo, gli altri due protagonisti sono persi nell’irriducibilità del tempo vissuto, nei propri insuccessi e nel fallimento delle proprie stesse ambizioni, dei propri ideali di un mondo migliore.
Fiume carsico di riflessioni, in tutta la produzione di Enrico Bagnato ricorre (come in tanti autori e poeti, poiché la poesia, come anche i sentimenti, è intimamente universale), la tensione verso l’assoluto, come verso un mondo migliore e giusto. E il desiderio disatteso spesso si ripiega quieto nella descrizione di quella bellezza paesaggistica o interiore che è un po’ riflessione, lungimiranza, e un po’ rifugio da una realtà che troppo spesso non vuole essere a misura d’uomo.
Pubblicato su http://lobiettivonline.it/
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