Parole e immagini, la raccolta poetica di Piero Fabris con progetto fotografico di Daniela Ciriello: "Tasselli in macchia arsa e sfumature di contrasto"
di Lorena Liberatore
Tasselli in macchia arsa e sfumature di contrasto è una raccolta di poesie di Piero Fabris. Edito da FaLvision come la precedente raccolta poetica dello
stesso autore, Pigmenti d’Arpa; il volume da subito si contraddistingue poiché le liriche si fanno corpo grazie al progetto fotografico di Daniela Ciriello: si tratta di due veri e propri lavori sinergici che si completano a vicenda dandosi anima e corpo. Inoltre, il testo è corredato anche da un’introduzione di Geo Vasile, italianista e critico letterario, e da una prefazione (posta al centro del volume e che apre il lavoro fotografico) di Paolo Barbaro, storico della fotografia.
I due lavori agiscono parallelamente, raccontando in maniera personale e autonoma la propria terra, la Puglia, ma dandosi voce e alternandosi come in un controcanto. La Ciriello si mostra come un’artista perennemente tesa verso il miglioramento, alla ricerca della perfezione, dell’equilibrio, della giusta armonia fra gli elementi. Dichiara nella prefazione: «Ogni volta, davanti a un paesaggio, un oggetto, mi sento inadeguata e, prima di inquadrare (la nave rossa in una feritoia), ho bisogno di sintonizzarmi con il luogo o con l’altro, cioè con il soggetto e il mio sentire. Solo allora i miei scatti sono riusciti, felici, scevri dall’ansia, da certa trepidazione figlia della sensibilità». Si tratta infatti di scatti le cui riprese sono d’ampio respiro, grandi paesaggi in cui spaziare con lo sguardo come in un percorso, ma cogliendo sempre quella piccola particolarità, quell’elemento, vero protagonista, fermato nell’istante di un palpito vitale e che ha tutto di spirituale.
Sibillina è la dedica iniziale ai poeti dall’anelito cosmico Girolamo Comi, Grazia Stella Elia e Arturo Onofri. Un omaggio a una poetica metafisica e intimamente spirituale, ma la vera protagonista è quella Puglia aspra e materna, disillusa e schietta, spoglia e al tempo stesso fiabesca, che di primo acchito si pone come ambientazione scenografica ma si scopre che è molto più di questo: è grembo materno d’inaspettata tenerezza. E non è un caso che il titolo dell’introduzione definisce Fabris figlio della poesia e figlio del sud.
Meditazione e immaginario sono gli ingredienti fondamentali, nei quali compare l’elemento surreale e quello onirico, sempre cari al Fabris e presenti in molte delle sue produzioni artistiche. Il tutto su quel palco, che è la vita, che mette in scena fenomeni naturali e azioni umane, in quel nostro sud del sud dei santi (come direbbe Carmelo Bene).
Una muta e silente osservazione celebra un universo che a tratti appare poco benevolo verso l’essere umano, forse meno amichevole d’un tempo. Non si narra l’esaltazione estatica e voluttuosa di un’immedesimazione vitale col paesaggio, ma la muta e religiosa osservazione di un mondo a suo modo anche ostile (non solo o non sempre rifugio e casa), seppur riccamente vivo, aspro e arso dalle passate vite; un’osservazione segnata da quella consapevole conoscenza che porta al disincanto o a quella visione orgogliosamente sospettosa di una natura materna ma all’occorrenza anche matrigna.
È un universo il cui silenzio sembra a tratti preannunciare il ritorno di un’antica guerra o di un possibile evento nefasto, o in altri casi la vittoria di un’antica sapienza e umanità. Il narratore spesso scruta lungimirante il cielo in attesa del sereno o di una tempesta. Gli dei saranno ostili o benevoli?
Eppure il contatto con la natura può risvegliare antica armonia e serenità: «Ogni giorno col proprio fardello di inquietudini, / e fantasie andiamo per boschi ridondanti di grilli, / campagne arse e disabitate, / all’ombra del monte buio / fin dove pire di Silenzio / rivelano la vita in grotte di stalattiti / dove sgorgano chiare, limpide / acque frizzanti / di vita nuova» (Nomade).
In La nenia delle attese spietato si mostra il giudizio verso la società contemporanea, dove la voglia e la capacità di migliorare il mondo sembrano annientati ed «è obsoleta la parola anticonformista / e il matusa è termine vago / richiamo a essenza di fiore appassito. / In questo tempo prostituito alla sopravvivenza / oggi sepolti in comodi divani / con pupille incantate di televisioni appiattite / orgogliosi dei figli coraggio che / non chinarono il capo servili, sospiriamo».
Non si può non citare l’omaggio a Vittorio Bodini, la poesia Terrazze sulla riva del sole, in cui ricompare quel sud tanto amato ricco di case bianche e mute, il tronco contorto d’ulivo, la brocca d’acqua fresca, le stoppie arse e i vicoli; e di Bodini viene esaltata la sua attività di poeta e traduttore della letteratura spagnola, le «traduzioni di fatti e parole vere / bagnate da mar di popoli».
Altrove, in Sommerso, sono invece citati i paesaggi sospesi del fotografo Luigi Ghirri, riferimento affatto casuale ma perfettamente in linea con questo sud metafisico descritto sia dal Fabris che dalla Ciriello.
È invece dedicata a Salvatore Toma Le querce delle Cia’ncole dove compare un magistrale ed entusiasmante moto ascendente e discendente di parole e immagini, trascinati in un vortice d’innata energia: «[…] ti immergi nei fondali spettrali dell’animo indomito, / ogni volta risali, rimugini sfumati onirici / coltivi contrasti tra le macchie del labirinto / sul precipizio che si schiude a gaie dissolvenze […] sul ciglio di giochi d’onda e flutti Cosmici».
Concludo questo invito alla lettura con le parole di La lanterna, poesia di straordinaria attualità in questo drammatico periodo storico. A queste parole non servono commenti:
«Un dardo rischiara la notte / un sibilo improvviso l’accompagna / si schianta sul paese in festa, / in un attimo macerie / i visi sorpresi, sbiancati, senza comprendere. / In nome di un Dio quanti esseri nelle fauci della Morte. / E quanti disorientati nel buio senza sapere cosa sia la Luce. / È il rancore a scagliarsi contro cristalli d’indifferenza. / Urla, bestemmie, parole svuotate, recise. / Bieco interesse / per il Futuro ho acceso una fiaccola, / una candela […] in attesa dell’Aurora / senza illusione / solo Speranza».
Pubblicato su http://lobiettivonline.it/
stesso autore, Pigmenti d’Arpa; il volume da subito si contraddistingue poiché le liriche si fanno corpo grazie al progetto fotografico di Daniela Ciriello: si tratta di due veri e propri lavori sinergici che si completano a vicenda dandosi anima e corpo. Inoltre, il testo è corredato anche da un’introduzione di Geo Vasile, italianista e critico letterario, e da una prefazione (posta al centro del volume e che apre il lavoro fotografico) di Paolo Barbaro, storico della fotografia.
I due lavori agiscono parallelamente, raccontando in maniera personale e autonoma la propria terra, la Puglia, ma dandosi voce e alternandosi come in un controcanto. La Ciriello si mostra come un’artista perennemente tesa verso il miglioramento, alla ricerca della perfezione, dell’equilibrio, della giusta armonia fra gli elementi. Dichiara nella prefazione: «Ogni volta, davanti a un paesaggio, un oggetto, mi sento inadeguata e, prima di inquadrare (la nave rossa in una feritoia), ho bisogno di sintonizzarmi con il luogo o con l’altro, cioè con il soggetto e il mio sentire. Solo allora i miei scatti sono riusciti, felici, scevri dall’ansia, da certa trepidazione figlia della sensibilità». Si tratta infatti di scatti le cui riprese sono d’ampio respiro, grandi paesaggi in cui spaziare con lo sguardo come in un percorso, ma cogliendo sempre quella piccola particolarità, quell’elemento, vero protagonista, fermato nell’istante di un palpito vitale e che ha tutto di spirituale.
Sibillina è la dedica iniziale ai poeti dall’anelito cosmico Girolamo Comi, Grazia Stella Elia e Arturo Onofri. Un omaggio a una poetica metafisica e intimamente spirituale, ma la vera protagonista è quella Puglia aspra e materna, disillusa e schietta, spoglia e al tempo stesso fiabesca, che di primo acchito si pone come ambientazione scenografica ma si scopre che è molto più di questo: è grembo materno d’inaspettata tenerezza. E non è un caso che il titolo dell’introduzione definisce Fabris figlio della poesia e figlio del sud.
Meditazione e immaginario sono gli ingredienti fondamentali, nei quali compare l’elemento surreale e quello onirico, sempre cari al Fabris e presenti in molte delle sue produzioni artistiche. Il tutto su quel palco, che è la vita, che mette in scena fenomeni naturali e azioni umane, in quel nostro sud del sud dei santi (come direbbe Carmelo Bene).
Una muta e silente osservazione celebra un universo che a tratti appare poco benevolo verso l’essere umano, forse meno amichevole d’un tempo. Non si narra l’esaltazione estatica e voluttuosa di un’immedesimazione vitale col paesaggio, ma la muta e religiosa osservazione di un mondo a suo modo anche ostile (non solo o non sempre rifugio e casa), seppur riccamente vivo, aspro e arso dalle passate vite; un’osservazione segnata da quella consapevole conoscenza che porta al disincanto o a quella visione orgogliosamente sospettosa di una natura materna ma all’occorrenza anche matrigna.
È un universo il cui silenzio sembra a tratti preannunciare il ritorno di un’antica guerra o di un possibile evento nefasto, o in altri casi la vittoria di un’antica sapienza e umanità. Il narratore spesso scruta lungimirante il cielo in attesa del sereno o di una tempesta. Gli dei saranno ostili o benevoli?
Eppure il contatto con la natura può risvegliare antica armonia e serenità: «Ogni giorno col proprio fardello di inquietudini, / e fantasie andiamo per boschi ridondanti di grilli, / campagne arse e disabitate, / all’ombra del monte buio / fin dove pire di Silenzio / rivelano la vita in grotte di stalattiti / dove sgorgano chiare, limpide / acque frizzanti / di vita nuova» (Nomade).
In La nenia delle attese spietato si mostra il giudizio verso la società contemporanea, dove la voglia e la capacità di migliorare il mondo sembrano annientati ed «è obsoleta la parola anticonformista / e il matusa è termine vago / richiamo a essenza di fiore appassito. / In questo tempo prostituito alla sopravvivenza / oggi sepolti in comodi divani / con pupille incantate di televisioni appiattite / orgogliosi dei figli coraggio che / non chinarono il capo servili, sospiriamo».
Non si può non citare l’omaggio a Vittorio Bodini, la poesia Terrazze sulla riva del sole, in cui ricompare quel sud tanto amato ricco di case bianche e mute, il tronco contorto d’ulivo, la brocca d’acqua fresca, le stoppie arse e i vicoli; e di Bodini viene esaltata la sua attività di poeta e traduttore della letteratura spagnola, le «traduzioni di fatti e parole vere / bagnate da mar di popoli».
Altrove, in Sommerso, sono invece citati i paesaggi sospesi del fotografo Luigi Ghirri, riferimento affatto casuale ma perfettamente in linea con questo sud metafisico descritto sia dal Fabris che dalla Ciriello.
È invece dedicata a Salvatore Toma Le querce delle Cia’ncole dove compare un magistrale ed entusiasmante moto ascendente e discendente di parole e immagini, trascinati in un vortice d’innata energia: «[…] ti immergi nei fondali spettrali dell’animo indomito, / ogni volta risali, rimugini sfumati onirici / coltivi contrasti tra le macchie del labirinto / sul precipizio che si schiude a gaie dissolvenze […] sul ciglio di giochi d’onda e flutti Cosmici».
Concludo questo invito alla lettura con le parole di La lanterna, poesia di straordinaria attualità in questo drammatico periodo storico. A queste parole non servono commenti:
«Un dardo rischiara la notte / un sibilo improvviso l’accompagna / si schianta sul paese in festa, / in un attimo macerie / i visi sorpresi, sbiancati, senza comprendere. / In nome di un Dio quanti esseri nelle fauci della Morte. / E quanti disorientati nel buio senza sapere cosa sia la Luce. / È il rancore a scagliarsi contro cristalli d’indifferenza. / Urla, bestemmie, parole svuotate, recise. / Bieco interesse / per il Futuro ho acceso una fiaccola, / una candela […] in attesa dell’Aurora / senza illusione / solo Speranza».
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