Io e... una Sonata al chiaro di luna
Ho trovato un vecchio filmato di quando suonavo il pianoforte, credo sia del 2006. Chiedo scusa per le imprecisioni, i piccoli errori, ma che verranno notati solo da chi è del campo. In questo video: Sonata al chiaro di luna di Beethoven, soprannome attribuitole dal critico tedesco Rellstab.
Non era semplice per me suonare, non lo è per nessuno se si ha una patologia, ma quello che traspare da questo filmato, ed è la reale ragione per cui lo posto, è la forza d’animo. Straordinaria. Possiamo chiamarla resilienza se vogliamo, qualcosa che va oltre persino l’idea di forza o coraggio.
Il tipo a cui a un certo punto suona il telefono fu frustato pubblicamente a fine spettacolo… ok scherzo! Si nota che negli ultimi minuti sono abbastanza stanca… E mi viene da ridere a ricordare: perché ero incazzatissima quel giorno, e a nulla valsero i complimenti del maestro di piano, con il quale ho tuttora una sincera amicizia. No, neanche i complimenti dei ragazzi che si avvicinavano a me erano sufficienti, perché a casa, suonando da sola ero stata più brava. Perché avrei voluto mostrare il meglio di me, e non doveva essere un po’ di emozione a fregarmi!
L’insegnante mi disse che era come se gareggiassi a una corsa senza scarpe, verissimo! Ma non era sufficiente per una tipa tosta che chiedeva da sé il massimo. Questo aspetto di me lui lo conosceva bene, dal momento in cui ci siamo conosciuti, quando ero un’adolescente tutta pepe che non la smetteva di parlare di musica e album prog, come se al mondo esistesse un solo genere musicale!
A distanza di anni, non sto a badare se l’esecuzione era perfetta ma guardo con occhi d’ammirazione quella me che ero, oggi che il mio spirito è fiaccato, la mia forza di volontà. E guardo quella me, piena di immaturità, con il trucco che si notava a chilometri di distanza e l’incostanza, ma che erano scorza di una ricca interiorità.
E penso anche che se nello studio fossi stata davvero costante avrei ottenuto ben altri risultati (questa che parla ora dev’essere ancora la me d’allora!).
Abbandonai le lezioni nel 2009, se mi sbaglio sarà stato un anno dopo, fu più che una scelta un’esigenza graduale. No, non per la ragione che state pensando. Mettevo tanto impegno nello studio universitario, troppo, le lezioni di piano erano di sabato, nel tardo pomeriggio. Troppo spesso non trovavo il tempo di fare gli esercizi e farli al momento era un po’ prendermi in giro. Arrivavo a fine settimana stanca, stanca di vedere libri e le pareti di casa. Mi sentivo come un uccellino in gabbia e desideravo solo uscire con la mia migliore amica, e magari ubriacarmi con la mia migliore amica (ebbene sì!). Volevo cose leggere che mi strappassero alla gabbia dorata che mi ero creata.
Tempo dopo presi la mia prima sedia motorizzata da strada. Per suonare il piano avrei ogni volta dovuto spostarmi su quella manuale, se non lo facevo il rischio era suonare con il joystick e darmi il pianoforte nelle gambe! Ma uscivo di casa ad ogni minima occasione… e smisi di usare la sedia manuale. Insomma finii per non suonare più.
Ma non sono le uniche ragioni. Durante quel periodo avevo la sensazione perenne, fortissima, che qualcosa mi stesse sfuggendo tra le mani, perché vivere è un po’ cercare di afferrare qualcosa che scivola via (non è una frase di Vasco Rossi!). L’unica possibile soluzione che mi suggeriva la coscienza, o qualcosa di simile a una sorta di io interiore, era cercare di prendere tutto quello che la vita stessa offriva.
Forse non l’ho fatto abbastanza, anzi sicuramente, sì perché oggi so che dovevo dedicare più tempo alle cose apparentemente inutili. Lo dico scherzando: oggi ho la consapevolezza che studiare non serve a niente.
Ma come?? No, non parlo di cultura, non vado contro me stessa dicendo che dovremmo essere ignoranti, raggirabili come poveri incapaci. Dico che lo studio prettamente scolastico, “accademico”, a certi livelli non serve a nulla, se non a trasformarti in una macchina che “Fatti dare mezzo kilo di mozzarella di Aversa, assicurati che sia buona, premi la mozzarella, se è con il latte te la pigli, se no desisti!”.
E a un certo punto il sistema è quello che ti dà una pacca sulla spalla e ti dice che non c’è posto per te. Tu sei stato bravo, hai fatto tutto quello che gli altri si aspettavano, perché ci credevi, perché così avresti raggiunto altri e alti traguardi. E… ma chi te l’ha fatto fare? Ma io ho idee, ho progetti, cose nuove… E ancora non lo capisci che non servono?
Tutto ciò che è accademico è sempre un nuovo surrogato dei banchi di scuola, dove non si porta più un grazioso grembiule ma se fai tutto da bravo bambino qualcuno ti batte le mani. È tutto anacronistico. Non ha nulla a che fare con la cultura, con la ricerca personale, per certi versi persino con l’intelligenza. Tutto il sistema dell’istruzione si basa su questo fraintendimento, dovrebbe formare ad affrontare la vita ma non è mai così.
Qualcuno crede che sono i titoli che determinano il lavoro… Non proprio, quelli sono grossomodo un pezzo di carta, un passaporto, e se cadi nell’errore di accumularne la società ti dice che sei già vecchio e ne hai troppi. Perché quando ti accorgi che le cose bisogna ottenerle in determinati tempi è troppo tardi. Niente sconto della pena, però serviva fare l’esperienza.
Qui, in questo filmato, ho scelto di mostrare solo le mani (…il primo piano è su quelle) perché sono la parte più importante, quello che un po’ tradisce impegno e interiorità. La definizione non è alta, l’inquadratura non è stabile, ma non importa. Ha comunque il suo “perché”. Non è così per ogni cosa al mondo?
Lo pubblico, nel caso possa essere utile a qualcuno.
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