Un intimo sussulto della poesia. Valeria dell’Era, “È finito il miele nella coppa”, Matera 2012
di Lorena Liberatore
Ci sono vari modi per affrontare un grande dolore, come la perdita di una persona cara: attraverso la preghiera e il credo religioso, annullandosi nel lavoro, in altri casi con la poesia. La sublimazione tramite poesia (per niente estranea ai più famosi poeti, da Foscolo a Carducci per esempio) permette di riflettere se stessi nello specchio opaco del proprio dolore («ho pensato che la poesia / è uno specchio che brucia») e di scendervi sempre più a fondo, «ventimila leghe / sotto le acque tutte», in un tunnel la cui fine non coinciderà con il superamento totale, ma con il rimarginarsi di una ferita che lascerà una cicatrice, per la quale nessun unguento e belletto potrà nulla, perché «il dolore è testardo, come mulo […] / non conosce il ragionamento / delle filosofie / né certe morbidezze del pensiero».
Queste, appena citate, sono alcune parole di È finito il miele nella coppa, pubblicato in edizione fuori commercio nel 2012 e primo volume di poesie di Valeria Dell’Era, docente di francese e russo; ed è con pura e infinita poesia, sincera, a tratti semplice e quotidiana, che l’autrice affronta forse il dolore più grande del mondo, quello del sopravvivere a un figlio: ed «È strano / questo dolore: / come autopsia impazzita / sventra il corpo / e poi lo riempie / di miele sconosciuto».
L’argomento delle liriche, in versificazione libera, fa pensare a Il Dolore di Giuseppe Ungaretti, in cui è preponderante la tragica analisi del lutto per il figlio e il fratello, mentre il titolo riecheggia casualmente È finito tutto il miele di Carlo Levi, nel quale straordinario punto di contatto è il ricordo del ritmo di un canto funebre che celebra un figlio morto: il miele irrimediabilmente perduto. E qui diventa ancora più chiara l’entità del miele, cui fa riferimento Valeria Dell’Era; esso è ormai finito nella coppa, e quest’ultima è un sacro Graal il cui volto è quello di Ilaria, scomparsa a soli vent’anni. Dolce modo di attutire il dolore è la creazione di un intimo “limbo”: un isolamento consistente nel ricordo del passato, nel tentativo di tenere in vita il dialogo tra madre e figlia (complice la fantasia, il ricordo e il legame filiale ancora integro a dispetto degli eventi), nella conservazione degli oggetti che segnano in sé il passaggio della presenza di Ilaria, nel rifiuto del nuovo e di ciò che sfacciatamente sopravvive alla perdita, e infine nell’agrodolce abbandono all’ascolto dei propri sentimenti. Anche questo è “il miele” in tutta la sua essenza.
Si tenta di rallentare l’irrompere di un imminente futuro senza Ilaria, si rifiuta quel mondo che ha già superato il lutto, e si scende nel fondo di un mare, ovverosia nell’ascolto intimo e profondo di un dispiacere, talmente intenso, da far rammaricare l’autrice del suo stesso leggero affievolirsi e da voler quasi proteggere e custodire in eterno: «Sto bene con te / la sera / nel nostro limbo. / Lo so piccola / non protestare / il limbo è così / né bianco né nero. / Un’ovatta grigia / dal cui groviglio / non desidero / che tu esca / per divenire / una volta per tutte / angelo». In questa contiguità tra realtà e fantasia, tra ricordo e presente, tra terra e aldilà, dolce e quotidiano è il dialogo tra la madre e la figlia, ricco di raccomandazioni, premure e ironiche provocazioni («Mamy, da domani smettiamo, specialmente tu che sei vecchietta»).
Il dialogo epistolare si trasforma ben presto in un monologo, a parlare è solo la madre, che a tratti rimprovera la sua muta interlocutrice di non rispondere o non far sapere come si trova nella sua nuova dimora («ti piace? Non mi hai detto niente?»), le domande si affastellano una dopo l’altra senza alcuna reale risposta.
«Ti rendi conto piccola / a cosa mi hai condannata? / Te ne rendi conto?» afferma l’autrice nella lirica Il mito di Sisifo, paragonando la convivenza con il ricordo («la tua inutile possibilità / di rimanere eterna») appunto all’omonimo mito; l’intimo malessere è un richiamo pressoché continuo, un suono sordo quasi sempre presente, «se ti penso / e pure […] quando / non ti penso», ecco perché «Il mito di Sisifo / quello / è condanna minore» benché «L’eterna durata del castigo solo / ci accomuna». Gesto conseguente, quasi gridato, è il perentorio «È mamma che te l’ordina Ilaria: / Alzati e cammina», unica e impossibile soluzione al peso del macigno/castigo. E altrove Ilaria da moderno Lazzaro prende le sembianze di Biancaneve, salvata da un principe il cui cavallo non è bianco ma nero, o magari «Bianco, anche piccolo tipo pony?» chiede con fare giocoso e materno la Dell’Era.
A tratti, sembra palese nei versi il sopraggiungere di un superamento definitivo, sentendo «in modo preciso / che non esisti più»; sembra ristabilitasi la comunione con il mondo e l’apprezzamento delle sue bellezze («Sono tutte lì ancora / le belle cose / della nostra Terra»), ma subentra quasi subito «quel dolore speciale / sull’intero / lato sinistro»: il vuoto della perdita. E così i pensieri e gli intimi sentimenti dell’autrice finiscono per «rouler / sur une Corniche / de n’importe quel Or» (che simboleggia il non sentirsi parte dello stesso paesaggio, la mancanza di panica comunione con le bellezze terrene), «sur une côte / de n’importe quel Azur». Rappresentative a tal proposito sono le poesie in francese e in russo: Ça fait six mois e мне просто хочется. Infatti in Ça fait six mois la mente torna al ricordo del lutto e quest’ultimo è l’unica cosa che riguarda l’autrice: «Moi? / Ça fait six mois / que tu es partie».
In È finito il miele nella coppa la poesia assume un valore auto-consolatorio, benché, in buona parte dei versi, non sia un beneficio totale ad impreziosire la commovente scrittura, ma una parziale e amara consolatio che trasforma la poesia stessa in una compagna di viaggio, una virgiliana tutrice che ovatta le emozioni più forti e fa nutrire la mente dei sentimenti più dolci e materni. La poesia come compagna e muta interlocutrice, questa è l’arma con la quale l’autrice affronta se stessa e il mondo, trasformando il proprio immaginario nel limbo della rimembranza o intavolando bergmaniani dialoghi con le proprie e altrui assenze. Un senso di sospensione poetica è acuito dalle frequenti domande disseminate in tutto il volume; la scrittura si impreziosisce anche di veli fiabeschi, mitologici e storici. Tutto il testo sembra scorrere come un diario privato, a tratti come una sussurrata fiaba, raccontata al proprio bambino prima di addormentarsi; sono mescolati toni leggeri e perentori, pacati e disperati, a riproporre l’alternanza dei più intimi sentimenti, dei moti dell’animo o degli imprevedibili flussi di coscienza; e ciò che ne risalta è il susseguirsi di una gamma emotiva pressoché completa, dalla rabbia alla rassegnazione, dall’inquietudine alla calma, dalla disperazione alla speranza, dall’allegria dei ricordi piacevoli alla malinconia. Tutto si alterna in un caleidoscopio che segna il percorso di rinascita interiore della stessa autrice, la quale si lega saldamente alla vita in nome dell’amore per la figlia più piccola. Dolci e profondi sono i pensieri poetici, e con essi i versi d’ispirazione pasoliniana, ricchi di amore infinito e traboccante, così forte da battere il tempo e lo spazio e da far sperare disperatamente la poetessa nell’esistenza di un Aldilà, di un mondo in cui riabbracciare la “dolcissima” Ilaria. E così è ricordata dai cari che le hanno voluto bene (non a caso Il nulla lucente, a Pier Paolo Pasolini e alla dolcissima Ilaria è il titolo della mostra di Claudio Vino e Gianni Zanni, tenutasi nel 2012 presso l’ex Palazzo delle poste di Bari).
A segnare il volume è la copertina, semplice ed essenziale, che reca il volto di Ilaria del Carretto (particolare del monumento scolpito da Jacopo della Quercia per la seconda moglie di Paolo Giunigi, signore di Lucca, prematuramente scomparsa). A Ilaria del Carretto dedicò alcuni versi Pier Paolo Pasolini nelle Ceneri di Gramsci; il trinomio Gramsci, Pasolini, Dell’Era torna qui a ripetersi e a fissare un rapporto tra il modello pasoliniano e quello utilizzato dalla Dell’Era, in un tentativo auto-consolatorio di definire la poesia intimamente universale. La coppia rappresentata dalle due Ilarie è così un intimo sussulto della poesia universale che supera i limiti della contingenza.
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