Luci, colori, contrasti e armonie, degli Accordo dei Contrari



 di Lorena Liberatore 



 La musica degli Accordo dei contrari varia dal progressive al jazz-fusion, al rock psichedelico, sconfinando in atmosfere etniche e orientaleggianti (sperimentazione legata all'etnomusicologia). Il nome colpisce il fruitore accorto e curioso che, se non lo dedurrà istintivamente per qualche propria formazione classica o letteraria, con una corretta e rapida ricerca su internet ne capirà subito il significato. 
 Un concetto che basa le proprie radici nella filosofia più antica e in particolare nella cultura greca, fondando la bellezza dell’universo sull’armonia delle sue differenze e persino (o soprattutto) delle sue imperfezioni, o delle sue distonie. Esempi? Andiamo a rispolverare un po’ di letteratura e filosofia (sarò sintetica e chiara per i meno avvezzi all’argomento!): Plinio il Vecchio parlava di armonie delle sfere, antico concetto filosofico che considerava l'universo come un grande sistema di proporzioni numeriche e i movimenti dei corpi celesti creatori d’una musica non udibile dall'orecchio umano, poiché in realtà formata da concetti armonico-matematici, Cicerone concepiva l’armonia come accordo di voci e suoni, e… Eraclito come armonia dei contrari! 
 Filosofia a parte, volendo, questo stesso concetto di armonia tra elementi del tutto diversi lo si potrebbe usare per descrivere il progressive che, al di là del suo innato tecnicismo, basa la propria unicità sulla commistione di generi e sonorità. 
 Detto questo, potrebbe non sorprendere il fatto che Giovanni Parmeggiani, tastierista del gruppo, è anche docente di storia greca presso l’università di Ferrara. 
 Ma vediamo meglio le caratteristiche di questo gruppo musicale. Diverse le influenze che spaziano dagli Area ai King Crimson, dai Mahavishnu Orchestra ai Soft Machine, da Frank Zappa agli Henry Cow. Nell’album dal titolo Kublai, del 2011, le atmosfere orientaleggianti fanno da forte contraltare alle sperimentazioni più tradizionali (spesso in volute citazioni degli Area, in perfetto stile Luglio, agosto, settembre (nero)); quest’ultime in alcune sonorità ricordano vagamente la primissima formazione dei Goblin, dal singolare nome Cherry Five. 
 Kublai è il nome dell’imperatore Kublai Khan, al quale Marco Polo raccontò (nel Milione, e poi ne Le città invisibili di Calvino) delle sue terre, un impero vasto e sconfinato a tal punto da non poterlo conoscere mai del tutto. E l’album abbozza per rapide pennellate, appunto, un territorio vasto e per la mente fantastico quanto la mitica Atlantide. 
 Ma la loro formula musicale è abbastanza chiara già dal loro primo album, Kinesis (termine greco il cui significato è movimento) del 2007, ricco di inserzioni di synth e d’uso delle tastiere un po’ alla Emerson, e in cui le sovraincisioni del violino strizzano l’occhio ai Gentle Giant o ricordano a tratti alcune performance violinistiche, insieme ai ritmi sincopati, spesso attuati dalla PFM. 
 Era solo l’esordio, ma era già chiaro il loro stile basato soprattutto sulla libera sperimentazione del suono. Questo per l’ascoltatore poco abituato al genere potrebbe risultarne anche il punto debole, poiché talvolta l’alta quantità di fioriture e tecnicismi (paragonabili al jazz più puro) si svela del tutto apprezzabile a un orecchio audiofilo e amante del genere. 
 Il suono con le sue fioriture, i suoi ritmi sincopati e modulati, i tempi irregolari, nella sua continua evoluzione, è un fiume che scorre in perenne cambiamento: appunto, kinesis per citare nuovamente il concetto base del primo album. Questo tende ad ignorare l’uso di un tema base, leitmotiv che a tratti faccia da sfondo a tutto l’album, lasciando spesso ogni brano autonomo e indipendente dall’altro. 
 Inoltre, è un errore inquadrare gli Accordo dei Contrari in una definizione. Infatti il vero fine di questo gruppo, al di là delle analisi da critici ipercorretti, è rappresentare ed esprimere, a proprio modo e in base alla propria personalità, in pennellate, luci e colori i contrasti e le armonie della vita… qui qualcuno penserà “Wow!! Un po’ pretenzioso?”… Direi proprio di no: da sempre e in ogni contesto non è forse il fine di ogni forma d’arte? Tutto si ripete rigenerandosi e nulla è uguale a se stesso, direbbe Deleuze. 
 E, naturalmente, questo continuo fluire ricompare anche nell’album AdC del 2014, che si evolve verso soluzioni musicali più mature e consolidate, sempre marcatamente jazz e rock, ma riavvicinandosi ad alcune asperità sonore e aggressive del primo album (asperità che sembrano riecheggiare alcune produzioni dei Soft Machine), affinate e perfezionate rispetto alla primissima produzione, e senza mai perdere il filone più sperimentale, tipico di questo gruppo.


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