La contessina Mizzi




La contessina Mizzi
è 
una commedia in un atto di Arthur Schnitzler. Nel 2009 assistetti a una sua messa in scena con la regia di Walter Pagliaro, Micaela Esdra nei panni di Mizzi, e nella traduzione di Giuseppe Farese (docente di Letteratura Tedesca alla Facoltà di Lingue dell'Università di Bari). 
La scenografia scelta per questa commedia era molto semplice: una serie di arcate rettangolari a segnare le colonne di un palazzo signorile, simbolo di una classe in decadimento, ma anche le pareti di una casa monumentale piena di storia; foglie autunnali su tutto il palco rendevano l’ambientazione nel giardino e sottolineavano quella decadenza storica, dei costumi e dei sentimenti tipica del testo di Schnitzler; l’illuminazione fioca all’inizio e poi più forte apriva uno spiraglio di luce su uno spaccato di vita piegato alla norma, all’apparenza e per questo svilito e annichilito.
Il sottotitolo di quest’opera è Un giorno in famiglia, palesemente ironico se si conosce la trama; il “giorno in famiglia” in questione è in realtà il risultato di un incontro inaspettato tra diversi personaggi appartenenti al medesimo “nucleo familiare”, smembrato in nome delle convenzioni borghesi, del bon ton e dell’apparire; le regole di una classe sociale trasformano così in automi privi di personalità e propria volontà. La vicenda narrata e il finale potrebbero far inquadrare l’opera nell’ambito della commedia di costume a lieto fine, ma in realtà si tratta solo della messa in scena della leggerezza e del savoir-vivre di una classe sociale che alla fine del secolo diciannovesimo sta per essere soffocata dagli eventi storici. 
Mizzi è una donna che ha saputo soffrire con grande contegno, ha alle spalle la relazione con il principe Ravenstein dal quale ha avuto un figlio (al tempo della storia diciassettenne e appena diplomato), costretta ad abbandonarlo a otto giorni dal parto, e ha più volte rifiutato le tardive proposte di matrimonio del principe avvenute solo dopo la morte della propria moglie, pare, gravemente malata; con la sua foga di salvare le apparenze e adattarsi alla norma sociale il principe Ravenstein ha umiliato e annientato il sentimento di maternità di Mizzi, costringendola all’autoannullamento.
Nella storia di Mizzi si intersecano altre vicende come quella del padre che per diciotto anni ha nascosto la relazione con la ballerina Lolo e il matrimonio di quest’ultima col cocchiere, insomma compare un microcosmo pieno di singole storie piegate più o meno alla norma sociale.
Il finale, la vacanza ad Ostenda, con il previsto incontro di tutti i protagonisti e, forse, con
un ripensamento di Mizzi, non rientra nel possibile lieto fine e serve solo a far riflettere lo spettatore sull’astuto gioco dei rapporti interpersonali nell’alta società, dove per seguire i propri affetti bisogna scendere a patti con la vita. La partenza di Mizzi per Ostenda pare così una tacita accettazione dell’ennesima proposta di matrimonio del principe, al fine di dare due genitori apparentemente adottivi a Philipp ma che nella realtà sono genitori biologici di un figlio nato per sbaglio o nel periodo sbagliato; e questa possibile conclusione mi pare adattissima a un autore come Schnitzler che disse “Il matrimonio è la scuola della solitudine” e che fu uno dei più grandi analisti e dissacratori dell’istituto familiare quale sede di ipocrisie, incomprensioni e condizionamenti (Schnitzler insieme al suo contemporaneo Strindberg distruggono l’ipocrisia della comune visione dell’istituto matrimoniale e a loro si rifarà più volte il grande Ingmar Bergman in film come Scene da un matrimonio).
Una frase di Schnitzler, 
in cui pare che Mizzi accetti il matrimonio per puro istinto materno, dice: “Ciò che logora le nostre anime nel modo più rapido e peggiore possibile è perdonare senza dimenticare”.

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