Molly Sweeney






Molly Sweeney è il titolo di una rappresentazione del 2008, vantava nel cast il Grande Umberto Orsini (nei panni del Dottor Rice), Valentina Sperlì (Molly), Leonardo Capuano (Frank), e Andrea de Rosa nella regia; si poneva come una sfida esecutiva nei confronti di un romanzo difficile da mettere in scena e da rendere a disposizione del pubblico senza tediarlo con una storia in perpetuo ricordo, e la sfida in questione, se così posso definirla, fu per molti vinta e il risultato molto suggestivo. 
Molly Sweeney metteva in scena la storia raccontata nell’omonimo romanzo di Brian Friel, uscito nel ’95; la vicenda narrata è realmente accaduta, ed è descritta e analizzata dal neurologo Oliver Sacks nel saggio Vedere e non vedere (To see and not to see, il paziente in questione però era un uomo). Molly è una donna di circa cinquant’anni, cieca dalla nascita, è una persona vitale, attiva, del tutto autonoma, piena di entusiasmo e di gioia di vivere, lavora come fisioterapista in un centro benessere e ha un marito che la ama; a dispetto della sua cecità Molly ‘vede’ e percepisce la realtà grazie ai suoi affinati sensi, adora le passeggiate, la musica e soprattutto il nuoto che le permette di provare una miriade di emozioni sensoriali e di sentirsi finalmente libera; ma circondano la protagonista e la avvolgono di un affetto lesivo due personaggi, ovvero il marito Frank che sogna di poter curare Molly dalla sua cecità e il medico oftalmologo, il Dottor Rice, che trovandosi ad abitare per caso nel paese dei due coniugi crede di poter aiutare radicalmente la donna restituendole la vista. Ma una volta riacquisita Molly sarà in grado di riconoscere il mondo? Saprà adattarsi a una nuova realtà?
In biglietteria, oltre alla restituzione del proprio biglietto appena segnato, venne data una mascherina nera, di quelle che si usano per dormire, poi si entrò in sala pieni di curiosità tra una folla di gente che si chiedeva che utilizzo farne di un oggetto simile durante la rappresentazione … “che si dorma a teatro?”: per buona parte dello spettacolo l’apprendimento era concentrato sui propri sensi eccetto la vista, per circa 45 minuti si era ciechi per poi riprendere a vedere insieme alla protagonista: un’idea (di Andrea de Rosa) assolutamente geniale! La recitazione era impostata su stazioni ben precise nell’alternanza di brevi monologhi che facevano rivivere la vicenda attraverso il racconto dei personaggi, i quali interagivano tra loro solo per brevi momenti in un gioco di parola e risposta, come quello in cui Frank chiede a Molly di riconoscere oggetti e animali al tatto (-“le orecchie pelose, la lunga coda… gatto!”). 
Gli attori recitavano anche nella platea, i dialoghi erano immersi in suoni, rumori amplificati (al buio si aveva l’impressione di percepire meglio le singole particolarità acustiche) e voci fuori campo preregistrate, come quella del padre di Molly, il tutto accordato insieme al rumore del vento, la musica, lo scroscio dell’acqua, le risa e il brusio di una festa (registrato in occasione di una vera festa fatta dietro le quinte con i ragazzi dell’Istituto Ciechi di Milano). 
Si raccontava così la vita di una persona piena di grinta e di entusiasmo attraverso il ricordo dei giochi di infanzia in cui Molly reinventava la realtà insieme al proprio padre, il primo ballo con Frank, la descrizione delle sensazioni percepite durante il nuoto, fino alla festa prima della mattina dell’intervento.
La storia narrata getta un enorme relativismo nella dicotomia salute\malattia, felicità\dolore, amore\crudeltà, vita\morte, vista\cecità, coraggio\viltà, minando la visione socialmente standardizzata del sano; infatti finché c’è il buio si muovono come in immagini frastagliate persone che vivono serenamente, dacché arriva la luce dopo il suono della pioggia, che segna il giorno dell’intervento, le cose cambiano; come nel Tristan und Isolde di Wagner o nel Ero e Leandro di Boito l’oscurità ovvero il buio è la sede della verità e della felicità, il luogo dove vedere, vedersi e percepire l’amore degli altri, mentre il sopraggiungere del giorno e della luce coincide con il ritorno delle regole sociali, della visione standardizzata, dalla percezione omologata, dove l’altro da sé è perduto e i sogni infranti. 
Frank ha qualcosa di Armand de La Signora delle Camelie, vorrebbe curare la donna amata, ma in questo caso la cura è per una percezione considerata incompleta, il suo errore è amare la possibile cura forse più della propria donna.
La scenografia (ideata ed eseguita prima in bozzetto) era molto semplice, tutta in bianco, simile al marmo, dava un se
nso di freddezza e di frigida irrealtà contro cui si stagliava Molly vestita di rosso; ma il bianco è anche il colore dell’ospedale, quello in cui fu ricoverata la madre, quello in cui lei stessa verrà operata e quello in cui verrà chiusa. Gli elementi scenici erano essenziali: al centro un tavolo con sedie che all’occorrenza si trasformava in un letto da manicomio, una poltrona a destra, e a sinistra una specchiera molto semplice, il tutto rigorosamente bianco come la parete di fondo, un enorme lenzuolo; infine, sul tavolo disposti in un vaso dei fiordalisi rossi che al centro della scena sembravano quasi di un’intensità abbagliante. 
Il rumore del temporale segnava il sopraggiungere della descritta scenografia e sanciva la ripresa della percezione visiva (partiva così il racconto di Molly sul momento in cui le vengono sciolte le bende e prende a vedere le prime ombre, i primi elementi colorati indistinti), ma tutto ciò non veniva svelato subito allo spettatore, bensì in maniera graduale cosicché gli oggetti ancora immersi dell’oscurità sembravano banchi di nebbia grigia, ovattata come fosse avvolta da un lenzuolo trasparente, e infatti tra gli attori e il pubblico c’era un pannello, una sorta di tangibile quarta parete a ricordare la cataratta della protagonista e la distanza tra lei e il mondo, un tessuto semirigido simile a una zanzariera che rendeva tutto ciò che era al di là di sé irreale e lontano esattamente come Molly vedeva le cose, infatti, il suo intervento non riesce completamente e le è permesso di guardare solo in parte quel mondo che la circonda.
Il personaggio di Molly dopo l’intervento va incontro a un’enorme difficoltà perché ciò che vede non è ciò che ‘vedeva’, non sa identificare un volto con l’affetto e la familiarità delle persone, tutto è estraneo, e a livello psicologico diventa impossibile distinguere un oggetto da un altro associandolo al suo nome, la protagonista si ritrova così nell’identica condizione di un bambino che deve imparare la realtà, e inevitabilmente regredisce e impazzisce. Ciò fu reso in maniera magistrale nel finale dove il tavolo\letto si trasformò in una piattaforma sospesa e oscillante (metafora di una moderna crocifissione) cui fu legata Molly. Il piano del tavolo\letto si dimostrò un pannello luminescente, unica fiaccola nel buio prima che tutto si spegnesse e il sipario si chiudesse. (“Ora sto bene, lasciatemi qui!”). 
Molly Sweeney dimostra come avere la vista non significa “vedere” e la realtà non è definita solo o soprattutto dalla nostra percezione visiva; la protagonista viene quasi obbligata ad adattarsi a una dimensione che non può percepire che col tatto, l’udito e l’olfatto, ma nel momento in cui questo accade non identifica più ciò che sente dentro di sé con il mondo che è fuori: l’affetto del proprio marito e dell’amico medico si dimostrano distruttivi, annientano tutto ciò che la donna era, così nell’amore incondizionato di due persone si annida l’egoismo e l’amor proprio, l’io è posto al vertice di tutto e “la cura” diventa un danno irreversibile. Si riapre un interrogativo che William Molyneux sottopose all’amico John Locke: “Immaginiamo un uomo nato cieco e ormai adulto, a cui sia stato insegnato a distinguere un cubo da una sfera mediante il tatto e al quale venga ora data la vista; sarebbe egli in grado, prima di toccarli di distinguerli e dire quale sia la sfera e quale il cubo, servendosi solo della vista?”.

Ho voluto parlare qui di questo spettacolo perché è un grande spunto di riflessione su questioni che non serve neanche menzionare, perché affiorano spontaneamente. Mi capita ancora oggi di ripensare alla figura di Molly e di ridare conferma a vecchie e nuove risposte.

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