Molly Sweeney, un percorso al buio 3° puntata
Il personaggio di Molly dopo l’intervento va incontro a un’enorme difficoltà nel rapportarsi con il mondo perché ciò che vede non è ciò che ‘vedeva’, non sa identificare un volto con l’affetto e la familiarità delle persone, tutto è estraneo, e a livello psicologico diventa impossibile distinguere un oggetto da un altro associandolo al suo nome, la protagonista si ritrova così nell’identica condizione di un bambino che deve re-imparare la realtà, e inevitabilmente regredisce e impazzisce. Ciò è reso in maniera magistrale nel finale dove il tavolo\letto si trasforma in una piattaforma sospesa e oscillante (metafora di una moderna crocifissione) cui è legata Molly, la cui figura è definita in maniera netta poiché il piano del tavolo\letto si dimostra un pannello luminescente, unica fiaccola nel buio prima che tutto si spenga e il sipario si chiuda. (“Ora sto bene, lasciatemi qui!”).
Molly Sweeney dimostra come avere la vista non significa “vedere” e la realtà non è definita solo o soprattutto dalla nostra percezione visiva; la protagonista viene quasi obbligata ad adattarsi a una dimensione che non può percepire che col tatto, l’udito e l’olfatto, ma nel momento in cui questo accade non identifica più ciò che sente dentro di sé con il mondo che è fuori da sé: l’affetto del proprio marito e dell’amico medico si dimostrano distruttivi, annientano tutto ciò che la donna era, così nell’amore incondizionato di due persone sia annida l’egoismo e l’amor proprio, l’io è posto al vertice di tutto e “la cura” diventa un danno irreversibile. Si riapre così un interrogativo che William Molyneux sottopose all’amico John Locke: “Immaginiamo un uomo nato cieco e ormai adulto, a cui sia stato insegnato a distinguere un cubo da una sfera mediante il tatto e al quale venga ora data la vista; sarebbe egli in grado, prima di toccarli di distinguerli e dire quale sia la sfera e quale il cubo, servendosi solo della vista?”.
Molly Sweeney dimostra come avere la vista non significa “vedere” e la realtà non è definita solo o soprattutto dalla nostra percezione visiva; la protagonista viene quasi obbligata ad adattarsi a una dimensione che non può percepire che col tatto, l’udito e l’olfatto, ma nel momento in cui questo accade non identifica più ciò che sente dentro di sé con il mondo che è fuori da sé: l’affetto del proprio marito e dell’amico medico si dimostrano distruttivi, annientano tutto ciò che la donna era, così nell’amore incondizionato di due persone sia annida l’egoismo e l’amor proprio, l’io è posto al vertice di tutto e “la cura” diventa un danno irreversibile. Si riapre così un interrogativo che William Molyneux sottopose all’amico John Locke: “Immaginiamo un uomo nato cieco e ormai adulto, a cui sia stato insegnato a distinguere un cubo da una sfera mediante il tatto e al quale venga ora data la vista; sarebbe egli in grado, prima di toccarli di distinguerli e dire quale sia la sfera e quale il cubo, servendosi solo della vista?”.
Comments
acquistare la vista da adulti essendo stati ciechi da sempre è traumatico tanto quanto ciò che è successo a me, cioè l'ho persa da adulta: è troppo forte lo sconvolgimento e la visione diventa qualcosa da riprogrammare, vista o non vista a disposizione.
ciao, laura
p.s.: il mondo dei vedenti non può capire, medici compresi, solo provando veramente certe sensazioni si può sapere cosa ha passato molly